Iglesias, Cattedrale di Santa Chiara, 16 febbraio 2025
Beati, provvidenzialmente il Vangelo di oggi ci ha presentato il brano delle beatitudini, alle quali nel Vangelo di Luca fanno da contraltare le maledizioni per rafforzare il medesimo insegnamento. A ragione questo testo è considerato la sintesi di tutta la predicazione di Gesù, di tutto il Vangelo, la Magna Charta potremmo dire, il punto di riferimento fondamentale della chiesa quindi anche di questa nostra chiesa di Iglesias.
Il racconto di Luca rispetto alla versione che ci presenta Matteo ha alcune particolarità che solo apparentemente sono insignificanti. In questo momento vorrei riflettere su tre particolarità della pagina di Luca, tutte contenute all’inizio del racconto per poi sintetizzare e attualizzare l’insegnamento globale di questa pagina del vangelo. Luca ci dice che Gesù, dopo essere salito nella montagna e aver chiamato i dodici, discende e sta con loro in un luogo pianeggiante e lì incontra una grande folla, una grande moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. È una descrizione che facilmente possiamo adattare alla nostra situazione questo pomeriggio.
La prima particolarità: anzitutto non c’è più una collocazione spaziale tra Gesù e la folla. Sono sullo stesso piano, il maestro sta davanti ma non guarda nessuno dall’alto in basso, sta davanti. Letteralmente questo è il significato della parola “antistes” con la quale il latino ecclesiastico indica proprio il vescovo. Il vescovo è colui che sta sullo stesso piano, non guarda nessuno dall’alto in basso ma sta davanti, come me in questo momento. Quest’oggi è tutta la chiesa che si riunisce unita da una sola fede che tutti condividiamo e che ci fa figli e figlie dello stesso padre, generati da una stessa madre. È vero che io in questo momento sto davanti a voi ma non inizio il mio ministero da solo, non sono io la chiesa. Iniziamo un cammino insieme, un cammino che la chiesa ha già iniziato da tantissimo tempo: il vescovo è nella chiesa e per la chiesa. San Cipriano di Cartagine scrive: il vescovo è nella chiesa e la chiesa è nel vescovo, si potrebbe aggiungere: è nella sua mente, nel suo cuore. È la chiesa stessa che mi manda verso il vescovo di Roma Papa Francesco, che ringrazio di tutto cuore per la fiducia che mi ha accordato, il quale si fa interprete della volontà di Dio. Sono accompagnato da monsignor Baturi vescovo metropolita, da diversi fratelli vescovi della Sardegna, da tanti presbiteri e diaconi che ringrazio di cuore. La chiesa mi chiede di essere pastore di questa diocesi, di ereditare e custodire e testimoniare la fede dei nostri padri e delle nostre madri, qui presente da lunghissima data. La diocesi di Sulci, pur avendo origini non molto chiare, fu costituita probabilmente nel IV o V secolo, curiosamente o provvidenzialmente forse, nella mia attività di docenza ho insegnato la teologia della chiesa, ho tenuto il corso per ben 30 volte a Cagliari, e ora divengo vescovo di una diocesi che si chiama proprio chiesa, Iglesias, episcopus ecclesiensis.
La seconda particolarità del racconto di Luca. Davanti a Gesù si riunisce grande folla, grande moltitudine proveniente da tutta la Giudea, cioè dal sud della Palestina, altrettanto avviene per noi oggi. C’è una grande folla, tutti e tutte saluto e ringrazio, che rappresenta ogni uomo e donna che deve essere amato e accolto nella chiesa. Anche nel nostro caso la maggior parte di noi proviene dal sud della nostra amata isola, dalle diocesi di Cagliari e di Iglesias: queste due chiese sono davvero chiese sorelle, nel corso della storia per diverso tempo sono state totalmente unite, inoltre almeno dieci vescovi di Iglesias provenivano da Cagliari, l’ultimo dei quali prima di me è stato il compianto mons. Pillolla, del quale mi è stata regalata una croce pettorale che porterò molto volentieri. Uno di questi vescovi addirittura proveniva dalla mia stessa città, monsignor Giovanni Cogoni, mio parente. Altri quattro hanno fatto il cammino inverso, cioè da Iglesias sono passati a Cagliari, di cui l’ultimo, solo temporalmente, il cardinale Miglio, che ringrazio non solo per le parole che mi ha rivolto ma per tutto quello che ha fatto per accogliermi e aiutarmi. Il cardinal Miglio in questi ultimi due anni ha proseguito l’opera di monsignor Giovanni Paolo Zedda, l’ultimo vescovo di questa sede, colgo l’occasione per salutare e per ringraziare anche lui.
La terza particolarità: l’evangelista Luca, tra le città di provenienza della folla, menziona Tiro e Sidone. A noi questa menzione dice poco ma è importante perché al tempo erano terre pagane: il nome stesso Tiro pare significhi l’insieme delle nazioni. Questo ci ammonisce a guardare al di là di queste mura, la chiesa non è qui per celebrare se stessa, essa è segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto, tutto il genere umano, come insegna la costituzione conciliare Lumen Gentium. Siamo chiesa per ogni uomo e per ogni donna, perciò non ci sono estranee le situazioni sociali nelle quali versano i cittadini. Del resto, davanti a Gesù, come facilmente si evince da questa pagina del Vangelo c’erano poveri e ricchi, chi aveva fame e chi era sazio, gente che piangeva e gente che rideva, nessuno è escluso. La nostra attenzione quindi in particolare va a chi ha perso o sta perdendo il lavoro, alle nostre città e ai nostri paesi sempre meno popolati, a chi vive in situazione di estrema povertà, ai migranti che sbarcano sulle nostre belle coste, a chi vive nella sofferenza sia fisica sia di altra natura, in modo particolare ai giovani che mi hanno voluto rivolgere ben due saluti e li ringrazio, nei quali hanno manifestato le loro attese, le loro speranze ma anche le loro delusioni, i loro problemi. Per queste e altre situazioni la chiesa ha il dovere di collaborare con le istituzioni civili che vedo qui ampiamente rappresentate e per questo manifesto la mia gratitudine, salutando e ringraziando tutti per la vostra presenza. In modo particolare il signor sindaco, che mi ha rivolto il suo saluto anche a nome di tutti gli altri sindaci della diocesi e di tutte le altre autorità civili e militari presenti, così come ringrazio anche il rappresentante del mondo del lavoro che ha manifestato in piazza Sella ancora una volta la disponibilità alla collaborazione e il disagio di tante famiglie.
A questo proposito voglio citare le parole di Papa Francesco, nella sua visita a Cagliari il 22 settembre del 2013, diceva “lavoro vuol dire dignità, lavoro vuol dire portare il pane a casa, lavoro vuol dire amare”. Nella stessa occasione il Papa ha ammonito tutti dicendo “Non lasciatevi rubare la speranza, non lasciatevi rubare la speranza, forse la speranza è come la brace sotto la cenere, aiutiamoci con la solidarietà soffiando sulle ceneri perché il fuoco venga un’altra volta ma la speranza ci porta avanti”. Queste parole di Papa Francesco ci spronano in modo particolare in quest’anno giubilare dedicato proprio alla speranza, speranza che però non è fondata sulla nostra azione ma sulla Parola di Gesù e sull’azione dello Spirito che mai ci abbandona.
A tutti, proprio a tutti, a tutti quelli che ha davanti, Gesù offre il segreto dell’esistenza, il senso della loro vita racchiuso in una sola parola: Beati. La parola beati non indica solo il nostro destino futuro ma la nostra condizione già qui oggi. “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia” abbiamo sentito nella prima lettura, secondo il racconto del profeta Geremia siamo beati non perché abbiamo una vita facile, non perché nella chiesa, non che in questa chiesa non ci siano difficoltà e problemi, lo so bene, li analizzeremo, cercheremo di affrontarli insieme. Non siamo beati perché abitiamo in una zona geografica meravigliosa come il Sulcis Iglesiente, come è la Sardegna, sia pure una zona non sempre rispettata e valorizzata adeguatamente. Neppure siamo beati perché siamo potenti e possiamo confidare in noi stessi, nelle nostre opere, nei nostri programmi, nei nostri progetti, certo questi pure li dobbiamo elaborare e cercheremo di farlo nel migliore dei modi, tutti insieme, come Chiesa sinodale, in modo particolare insieme con i presbiteri, i diaconi, la nostra beatitudine però dipende da ben altro, è fondata in Dio, sulla sua fedeltà. Ogni nostra idea è fondata sul progetto che Dio ha per noi, ogni nostra azione deve essere una risposta al suo amore misericordioso, che sempre ci precede e ci accompagna e senza il quale nulla ha senso. Beati è la parola che questo pomeriggio risuona nella nostra mente e nel nostro cuore e che si tramuta in azione di grazia e ci spinge a gioire e ad agire, rallegratevi, saltellate, dice Gesù letteralmente, beati è la nostra vocazione, il nostro destino.
Questa casula che indosso, gentilmente donatami da alcuni amici confratelli, riporta il disegno della volta di questa cattedrale, non la potete vedere bene perché è un po’ coperta dall’ambone, la volta guarda al cielo meta del nostro cammino, beati siamo e saremo noi, beati perché Dio ha amato e ama la sua chiesa.