La Caritas, un fatto culturale

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Intervista al direttore di Caritas Italiana, don Francesco Soddu

Intervista a cura di Mario Girau

Quando si parla di Caritas Italiana non bisogna fermarsi ai numeri da grande industria della solidarietà. Uno su tutti: solamente dal 2013 al 2017 ha realizzato 1408 microprogetti in 82 paesi del mondo per una spesa di 6.232.930 euro. Neppure alla sua capillare organizzazione in Italia: presente in 220 diocesi, quasi 2000 strutture territoriali alle quali l’anno scorso si sono rivolte 197.332 persone, 42,2% italiani e 57,8% stranieri. La Caritas è prima di tutto un fatto culturale.

Paolo VI istituì la Caritas – dice don Francesco Soddu, direttore della Caritas nazionale – affidandole un compito specifico all’interno di una rinnovata concezione della Chiesa scaturita dal Concilio Vaticano II, in cui tutti i suoi membri sono responsabili attivi della testimonianza della carità. Dunque una carità che, come all’art. 1 del nostro statuto, avesse come criterio trainante la “prevalente funzione pedagogica”. È naturalmente un processo mai concluso.

Sembra di vedere che al centro del vostro lavoro c’è di tutto: il povero, l’emarginato, i gruppi, i problemi individuali e collettivi

È però sempre più evidente un tratto comune: la centralità dell’attenzione che le Caritas sono chiamate ad avere verso le comunità che sperimentano processi di crescente impoverimento, di frammentazione, di deterioramento delle relazioni.  Emerge, non solo da un punto di vista terminologico, un’evoluzione che parte dal concetto di animazione in senso generico, passa per la sussidiarietà, per giungere allo sviluppo di comunità. Possiamo considerare questo percorso una delle nuove possibilità di agire per l’animazione pastorale”.

Quale è allora il compito primario della Caritas?

Non è tanto quello relativo alla risoluzione dei problemi, quanto piuttosto rendere possibile l’abitabilità delle situazioni. La promozione, anzi l’inclusione, senz’altro la presa in carico e l’accompagnamento delle persone più vulnerabili costituisce il lievito ed il metodo attraverso cui la comunità rigenera se stessa.

Questo che cosa comporta per il volontariato Caritas?

Coloro che si mettono a servizio della comunità attraverso la Caritas dovranno quindi possedere o acquisire lo stile e la mentalità degli animatori, diventare moltiplicatori di attenzione e impegni, coinvolgere sempre più la comunità e ciascuno dei suoi membri nell’accoglienza, nel servizio, nello spirito della gratuità. È la logica dell’educare facendo e facendo fare, affinché la comunità produca in se stessa i germi della propria sussistenza.

Quale è l’emergenza che preoccupa maggiormente la Caritas italiana. Nell’ultimo rapporto vi siete concentrati sull’emergenza educativa. Ma la fame fa più male.

Esserci concentrati sull’emergenza educativa non significa che l’attenzione sia stata spostata su ambiti e settori diversi rispetto a quelli ritenuti classici dell’azione Caritas. Il tema dell’ultimo rapporto Caritas mira, in sostanza, a far comprendere come il problema della fame vada affrontato dal punto di vista non tanto o non solo meccanicistico quanto piuttosto culturale e quindi strutturale. Se, come afferma papa Francesco nella Evangelii gaudium, “la realtà è superiore all’idea”, non siamo noi a scegliere su che cosa operare, ma è il “grido” del nostro popolo a indicarci le priorità del nostro impegno, al fine di contribuire alla ricostruzione di comunità territoriali consapevoli, solidali e capaci di speranza.

Quale è lo stile dell’azione Caritas?

La bussola che ci guida è il metodo della pedagogia dei fatti, che impegna la comunità a partire dai problemi, dai fenomeni di povertà, dalle sofferenze delle persone, dalle lacerazioni presenti sul territorio, per costruire insieme risposte di prossimità, di solidarietà e per allargare il costume della partecipazione e della corresponsabilità.

Oggi è cambiato il concetto di povertà?

Occorre essere consapevoli che, a differenza di quanto accadeva fino ad un recente passato, oggi il concetto di emarginazione è un concetto “contenitore”, in grado di descrivere bene la generalità del rischio di povertà e di marginalità sociale in cui si trova o può venirsi a trovare ogni persona, indipendentemente dal ceto sociale.

Quindi, come comportarsi praticamente?

Chiaramente la presenza di situazioni di fragilità dai contorni non sempre ben definibili esige non solo una “politica” più mirata ad affrontare le cause del fenomeno (il lavoro, la casa, il sistema dei valori, l’appartenenza culturale, la rete dei servizi alla persona e alla famiglia…), ma anche una crescita della solidarietà sociale e della prossimità nella presa in carico delle situazioni più deboli.

La fragilità non sempre “definibile” richiede una maggiore capacità nel leggere e interpretare le situazioni.

Nelle nostre città il disagio è in realtà una somma di precarietà e fragilità. Non è tanto e solo l’immigrazione, la mancanza di lavoro, la mancanza di cibo, o il problema degli anziani soli o ancora la malattia mentale che caratterizzano il progressivo degrado dei quartieri, ma la somma di tutti questi fattori. Proprio per questo la sola analisi di ciò che non funziona e la sola distribuzione di servizi non bastano più. Occorre uno sguardo che sappia vedere lontano. Dobbiamo imparare a “leggere i territori” in termini di relazioni, contatti, progetti. Un impegno che deve portare a rispondere – come sempre – ai bisogni che ci vengono segnalati, ma anche ad anticipare i fenomeni e a intercettare il disagio prima ancora che si acutizzi. “Questo povero grida e il Signore lo ascolta” (Sal 34,7). Sono le parole del Salmista che il Papa riprende quest’anno nella Giornata Mondiale dei Poveri, ci ricorda che “la risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità”. Così deve essere anche per le nostre risposte”.

Italiani cristiani dell’elemosina non della carità strutturale.

La Chiesa ha al centro l’Eucarestia e di conseguenza il concetto di carità come dinamismo e impegno nel servizio al mondo. Come ricorda papa Francesco essa non cresce per proselitismo, ma “per attrazione”. Pertanto, l’esercizio della carità verso ogni uomo è costitutivo della missione della Chiesa, tanto che Gesù lo indica come ambito sul quale egli esercita il suo giudizio escatologico: “avevo fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25, 31-46). Entro questo solco si pone l’anima dell’azione Caritas.

Quindi è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale.

Sicuramente. Non si accontenta di un gesto, ma coinvolge e crea un legame. Non è dunque solidarietà generica, né tanto meno semplice elemosina. È nuovo modo di essere, stile di vita, sull’esempio di Gesù, dono di amore nella reciprocità per incidere sul costume e sulla vita comunitaria e sociale. In altri termini il comando di Gesù “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”, esige oggi un cambiamento di mentalità, di cultura, un nuovo assetto di società per consentire un autentico sviluppo umano integrale, restituendo ad ognuno la propria dignità di persona, la libertà di figlio dell’unico Padre, il diritto di vivere dignitosamente. Qui la carità incrocia la giustizia.

Fine dell’elemosina?

L’elemosina, di per sé, non è male anzi. Sottolinea ed evidenzia l’animo buono delle persone che non si lasciano dominare dalla cultura dell’indifferenza, ma che, in qualche modo, si sentono interpellati all’azione. Diventa se non negativa almeno distorta o parziale, quando questa appaga se stessa, non è cioè capace di andare oltre, verso una logica di condivisione.

Difficile entrare dentro la persona che fa l’elemosina.

Non si può generalizzare. Certo, è molto più facile compiere gesti occasionali, magari sull’onda dell’emotività, ma è proprio questo uno degli aspetti su cui potenziare l’impegno educativo di cui ho detto prima: promuovere la carità evangelica che coinvolge chi la fa ed esige la conversione del cuore. Non si accontenta delle buone abitudini del passato, ma sa essere linfa vitale, capace di trasformare il presente.