Convocati a testimoniare insieme

Trascrizione della relazione “Convocati a testimoniare insieme, la dimensione della corresponsabilità nella comunità cristiana” tenuta da don Mario Aversano martedì 19 settembre 2023 al Convegno diocesano “Tenda di speranza”

Foto di Efisio Vacca

Nella Diocesi di Torino, da diverso tempo, ci siamo posti il dubbio di come ripensare la strutturazione della nostra comunità di fedeli.
Quando apro la mia relazione, sottolineo come il tema del convegno ci permetta di poter entrare in alcuni contenuti e di fare alcune riflessioni sulla Chiesa e di vedere i suoi interventi come propedeutici alla riflessione successiva in un clima di ascolto e fraternità.
Sottolineo l’importanza e la difficoltà di misurarci nell’impresa di calare l’annuncio del Vangelo oggi, considerando che troviamo tante persone con tanti anni di esperienza ma spesso fisiologicamente più resistenti a un cambio di visione.
L’ostacolo maggiore che noi, come platea, dobbiamo superare è quello di sospendere le nostre competenze per rendere possibile stare in una posizione di ascolto e persino renderci potenzialmente disponibili a un cambiamento di punto di vista.
Questo esercizio di fraternità, di ascolto, richiede un dispendio di energie importante e ci invita alla corresponsabilità.
Allora, la prima responsabilità su cui siamo chiamati è metterci nella posizione del discepolo, del credente così come i vangeli ci insegnano. Dobbiamo sentirci convocati prima di tutto rispetto alla nostra dimensione filiale perché il tema della responsabilità, della corresponsabilità, affonda le sue radici nella nostra identità filiale, nell’intimità con Cristo e con la Chiesa, che si traduce e si espande nelle relazioni che condividiamo.
Della parola responsabile, posso offrire varie letture etimologiche. Potrebbe derivare da due verbi latini, respondere o responsare, ma il significato è comunque rispondere di noi stessi, essere capaci di assumerci dei doveri, prendersi cura del mondo.
Un’altra implicazione di questo termine è anche in qualche modo la vocazione, rispondere a una chiamata.
Cito il filosofo morto diversi anni fa, chiamato Emanuele Sam Dominici, che parlava di responsabilità facendolo dipendere ermeneuticamente dall’espressione “Reus sporus”, cioè persona che sposa la realtà. Il responsabile è qualcuno che sposa la realtà.
Questo concetto richiama uno dei principi che Papa Francesco ci ricorda nel “Evangelii Gaudium”: <<…la realtà è superiore all’idea.>>
Incido su come uno dei rischi del credente è avere nei confronti della realtà un atteggiamento di disappunto, perché la realtà spesso è qualcosa che ci crea delusione e per la quale facilmente si pensa di avere delle soluzioni che possano tentare di cambiarla, di manipolarla, anche se risulta essere irriducibile. Le trasformazioni possono avvenire soltanto nella dinamica dell’incontro, dello scambio, della contaminazione, dell’accettazione del limite, del compromesso.
L’atteggiamento corretto è quello di accogliere la realtà e accettarla, anzi, deve essere essa stessa a istruirci, perché assumendo anche i linguaggi della realtà, proviamo prima di tutto ad abitarla e quindi anche a condividere con essa un percorso di trasformazione.
Questa è la pagina su cui ho lavorato nell’ultimo anno nelle varie unità pastorali della nostra diocesi, che conta 350 parrocchie e 55 unità pastorali. Incontro i consigli pastorali, a volte riuniti tra più parrocchie, poiché in alcuni casi un solo parroco guida diverse comunità. Proviamo a lavorare sulla disponibilità a riconoscerci in un’immagine di Chiesa che trova nell’immagine della casa una delle rappresentazioni più potenti, collegata alla dimensione della sequela.
Nel Vangelo di Marco, molte pagine vedono Gesù che conduce il suo Cammino lungo la strada. Quindi, la strada rappresenta sicuramente il luogo in cui si realizza la Chiesa, e di per sé l’espressione “Chiesa in uscita” tiene conto di questa estroversione fisiologica dell’identità della Chiesa.
Poi c’è la casa, una casa scoperchiata, la cui manutenzione è buona solo se non vive dentro una dimensione di impermeabilità alla realtà, ma si lascia invece arieggiare dall’incontro con quello che esiste, con la realtà del mondo.
Propongo di pensare alla Chiesa come a una casa scoperchiata, ricordando l’esperienza del luogo della convocazione in cui si fa Chiesa. Nei primi decenni della vita cristiana si parla proprio della domus ecclesiae, dove ci si incontrava, si condivideva la gioia del giorno del Signore, il pasto comune.
La via di accesso ordinaria, per varie persone, può risultare poco visibile, poco riconoscibile, poco attraente, e può essere un’esperienza di soglia invalicabile. La nostra azione pastorale e il nostro modo di testimoniare la fede potrebbero rendere difficile per qualcuno varcare quella soglia.
L’invito che ho proposto è stato quello di immaginare questa casa scoperchiata e cosa significhi per noi oggi pensare a degli scoperchiamenti. Ammiriamo la carità creativa e la straordinaria dedizione di questi quattro uomini che chiaramente mirano a condurre quest’uomo paralitico dinanzi al Signore Gesù. Il brano del Vangelo è straordinario per la creatività pastorale di questi uomini di cui non conosciamo nulla. Non fu un’operazione rapida e non conosciamo la reazione del padrone di casa, degli astanti o di Gesù a questa interruzione.
Quattro amici che portano un uomo così esausto che non ha la forza di muoversi. Anche l’evangelista Marco non dice nulla su questo avvenimento e questo silenzio è piuttosto interessante. Il Vangelo non riporta cosa provasse l’uomo paralizzato che voleva incontrare il Signore Gesù, sembra non essere una parte decisiva.
Ciò che il testo ci mostra è che Gesù rimane affascinato dalla fede di queste quattro persone. È il nome di quella Fede che agisce nella vita di quest’uomo.
Spesso nei Vangeli, le guarigioni coinvolgono direttamente la persona che soffre o un loro stretto familiare che intercede per loro. Qui, invece, la fede di questi quattro uomini, senza alcuna menzione dell’adulto paralitico, è fondamentale per scatenare l’azione di Gesù.
Lo scrittore CS Lewis, autore dei “Quattro amori”, a proposito dell’amicizia diceva: “Gli amici sono coloro che guardano verso la stessa verità”. Lewis non si limita a un’immagine romantica dell’amicizia tra persone che condividono tra loro, ma individui che guardano verso la stessa verità.
Nel nostro caso, sono quattro uomini che hanno un comune intento e accompagnano insieme quest’uomo davanti a Gesù. Metaforicamente, scoperchiano il tetto per fargli calare davanti a Gesù, un po’ come Gesù stesso è il segno dei cieli che ha aperto Dio, regalandoci la sua misericordia incarnata. Così questi uomini aprono questo luogo affinché quest’uomo possa entrare in contatto con il Signore Gesù. Quindi, siamo veri testimoni se rompiamo le nostre convenzioni.
Di solito non consideriamo i tetti scoperchiati come qualcosa che ci illumina, ma tutti sappiamo che se non si fa circolare l’aria in casa, arriva la muffa. Una volta, gli infissi delle nostre case erano pieni di spifferi per evitare ambienti troppo chiusi, contesti rassicuranti in eccesso, luoghi troppo caldi che diventano sterili e malsani, portando malattie a chi vi risiede.
Mons. Repole nella sua azione pastorale solitamente incoraggia i cittadini, laici e non, a non abituarsi ad essere persone infelici. Troppo spesso ci abituiamo a essere infelici, frustrati, a vivere il Ministero con dispiacere, con malessere. La pandemia ha acuito anche queste dinamiche.
Leggendo questa pagina del vangelo, l’invito è, almeno per un momento, mettersi nella condizione di chi è su quella barella. Anche un sacerdote, una suora o un laico può vivere momenti in cui si sente esausto, logoro, senza più gusto, quando non riesce più a percepire la gioia. Ci si ritrova a ricorrere continuamente a esperienze passate per ricordare chi si è, perché nel presente mancano esperienze che diano senso di vitalità.
È comune vivere momenti in cui non si riesce più a pregare e ci si ritrova a riproporre cose già fatte.
Spesso, anche distesi su quella barella, evitiamo di mostrare segni del nostro disagio agli altri, ciò avviene con tutto noi stessi, e spendiamo le ultime energie cercando di recitare una parte per sembrare sufficientemente adeguati. Nella narrazione delle nostre vite superfluamente frenetiche, ci limitiamo, quando va bene, a dire che siamo un po’ stanchi.
L’incontro del paralitico con quei quattro amici, capaci di percepire il suo disagio e malessere, è parte della guarigione di quell’uomo, sebbene non venga mostrato. La Chiesa è un luogo in cui maturano relazioni significative, altrimenti la Parola, la Comunione e la fraternità risulterebbero false.
Ciò che colpisce di questa pagina del vangelo è che quattro uomini sono umanamente capaci di comprendere la richiesta di vita di un uomo che non ha neanche la forza di esprimerla. Sono loro a portare avanti questa richiesta di vita, perché pensano che non sia accettabile per il cuore di Dio che qualcuno viva in questo mondo senza sentirsi un caso speciale per Lui.
È dalla relazione tra questi amici che il Signore viene coinvolto. Gesù stava insegnando all’interno di una casa e interruppe tutto per prestare attenzione a questi uomini.
Nell’esortazione apostolica ‘Christus Vivit’, Papa Francesco, scritta dopo il Sinodo sui giovani, ricorda che dovremmo smettere, soprattutto riguardo ai giovani, di essere affascinati da un’ossessiva programmazione, che ci porta a riempire ogni spazio dell’agenda nel corso dell’anno. Questo iper-programmare, avere rotte e obiettivi, pur necessario, spesso ci limita, come se potessimo avere tutte le risposte ai bisogni delle persone, offrendo soluzioni a problemi che non ci sono stati consegnati. È essenziale entrare in una dimensione di ascolto sincero della realtà per rispondere ai bisogni del momento.
Gesù, immediatamente, si lascia coinvolgere da ciò che sta accadendo e qui emerge l’immagine di Gesù. Per comprendere cos’è la fede, dobbiamo osservare come Egli si sintonizza con le vicende delle persone che incontra, offrendo a quest’uomo il perdono, la Misericordia, riconciliando completamente, dentro e fuori, spirito e corpo. Ha potuto agire così perché una perturbazione, un caos, è stato introdotto dentro quelle mura.
Cito il gesuita americano James Kina (?) a proposito della Misericordia, che dice: ‘La Misericordia è andare incontro al caos dell’altro’.
L’immagine dello scoperchiamento della casa la espone alle perturbazioni. Quando la perturbazione entra, le persone si lasciano sconvolgere dai programmi e è lì che si può incontrare la Vera Vita.

Trascrizione a cura di Aurora Fonnesu